Un silenzio lungo una vita - Racconto di Maria Denis Guidotti
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Sono settantasette anni che vivo rigorosamente nel mio silenzio…
Alcuni anni or sono, mi ritrovai ad ascoltare la ripetizione di una pagina di storia da parte della mia nipotina Lalli. Tema: Seconda Guerra Mondiale e deportazione.
Ricordo che mi trovavo sul letto, sdraiata e rilassata, ma qualcosa deve essere uscito dalla mia pelle perché Lalli smise di parlare e, con il viso turbato, mi osservava sgranando i suoi occhioni scuri da cerbiatta.
Ogni sua domanda sul mio stato di salute, su come mi sentissi al momento, ottenne sempre di risposta un sintetico «tutto bene, tutto a posto»…
Ma la mia mano ricorse velocemente alla borsetta in cerca delle pastiglie per il cuore.
Lalli continuava a guardarmi tra lo smarrimento e lo stupore, mentre il suo ignorare mi spronava a superare quel punto morto.
Non ricordo quanto tempo passò dalla mia inquietudine allo stato di «normalità», ma di fatto mi rimase impressa la faccia perplessa di mia nipote.
Dolcemente, ignorando l’accaduto, non mi fece ulteriori domande; però iniziavo a prendere consapevolezza di essere io a doverle delle spiegazioni.
I giorni successivi li passai come uno studente: ad alta voce, cercavo di costruire il mio discorso ma ogni volta, interrompendomi per il dolore al petto, non riuscivo a ripartire e neppure a trovare il giusto «la» per accordare e sincronizzare i ricordi che prorompenti stavano riemergendo. Un pomeriggio, mentre insieme stavamo facendo una passeggiata in Cittadella a Parma…
«Sai, Lalli, in questo posto ci sono stata proprio alla tua età. Avevo quattordici anni compiuti da pochi mesi e sono stata portata qui dai militari tedeschi e da quelli italiani. Ci sono rimasta per due giorni. E’ la prima volta che vi ritorno dopo tanti anni. Allora, Agosto del 1944, la guerra era quasi finita ma, di fatto, gli strascichi di quella violenza inaudita continuavano.
Vedi, vicino a quel bastione c’era un edificio dove i militari tedeschi mi hanno interrogato per due giorni e due notti incessantemente. Non hanno usato violenza fisica ma quella psicologica è stata pazzesca. Volevano sapere dove si trovavano i miei fratelli e mio padre ma, nonostante la giovane età e il mistero che aleggiava in quegli anni unito al senso di diffidenza verso chiunque non fosse un familiare, mi portarono al mutismo assoluto.
Di tutta risposta mi caricarono su un camion militare e mi portarono a Carpi, vicino a Modena, al comando militare tedesco.
Ricordo che eravamo in migliaia di persone ma nonostante ciò fummo tutte identificate. La violenza che vidi in quel frangente fu tremenda… Ma non quanto quella che avrei osservato nell’anno a venire.
Gli ebrei vennero subito stipati su alcuni treni, mentre io ed altri rastrellati in zona e non appartenenti a particolari etnie fummo caricati su pullman militari e portati a Verona.
Il viaggio era accompagnato da una cospicua scorta armata, il monito a starcene tranquilli.
Mentre salii su quell’autobus, ebbi la prontezza, unita alla sfrontatezza e all’incoscienza dei miei quattordici anni, di scrivere su un pezzetto di carta poche righe e buttarlo dal vetro fessurato prima che le guardie si posizionassero lungo il corridoio.
Seppi solo nell’agosto del 1945, per la precisione il diciotto, che il mio pezzetto di carta in cui comunicavo a mio padre del rastrellamento e della destinazione che mi avevano assegnato, era stato recapitato da qualche anima gentile alla mia famiglia.
Anch’io, piccola Lalli, venni poi stipata su un treno merci, in un ammasso informe di esseri umani: uomini, donne e bambini, fetidi e maleodoranti ricordi.
Ad Innsbruck, ci fecero scendere tutti quanti sui binari e ci divisero per sesso e per età; poi i militari tedeschi, con le armi cariche e puntate su di noi, iniziarono a contare 1- 2 – 3 … 100.
Io ero la 101.
La mia salvezza.
Fui rimessa sul treno ed, anziché finire direttamente ad Auschwitz, terminai il viaggio a Frankufurt am Main. Il treno arrivò direttamente all’interno di questo complesso di case basse e grigie, e ad attenderci, trovai i cani di razza pastore tedesco al guinzaglio delle “sorelle”, le guardie militari tedesche di sesso femminile.
Lì, i miei timpani furono perforati da urla disumane, sentii per la prima volta il rumore delle ossa mentre si rompevano sotto i colpi dei bastoni ed anche le prime persone che cadevano, piangendo, sotto i colpi dei fucili.
A me ruppero solo il naso con una gomitata ma non versai neppure un lacrima… Questo mi aiutò a non perire sotto la violenza gratuita.
Da allora ho in eredità i problemi al cuore e il dormire a occhi aperti, accompagnato dal rifiuto corporeo di chi, per mostrami affetto o riverenza, cerca un qualsiasi contatto fisico con me.
Sono stata una “schiava di Hitler”, ho “alloggiato” in diversi campi di lavoro e ogni tanto vedevo persone sparire inspiegabilmente da un giorno all’altro… Io sono tornata… Molti si sono dileguati o sono svaniti nel nulla.
Concludo, cara Lalli, invitandoti a rifiutare qualsiasi tipo di violenza gratuita, a lottare per difendere la libertà individuale e soprattutto l’autonomia nell’esternare il proprio pensiero. Ora spero tu possa anche perdonare il mio lungo silenzio e la mia ritrosia in questi anni nel parlarti di questa parte dolorosa di vita. Sono convintissima che sia giunto il momento di aberrare il silenzio e comunicare la mia esperienza con l’augurio che nulla di così drammatico e folle si possa ripetere».
Lalli adesso conosceva. Con un velo di dolore e comprensione, lentamente accarezzò la mano delicata della zia e s’avviarono lontano da quel posto traboccante di ricordi.
Fonte: www.gazzettadiparma.it
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