«#CoglioneNO», luci e ombre di una campagna

http://www.k-kommunika.ch/wp-content/uploads/2014/01/coglioneNo-300x182.jpgE’ stata lanciata nei giorni scorsi la campagna «#CoglioneNO»: una piccola serie di video realizzati per sensibilizzare sulla considerazione dei committenti verso alcune forme di lavoro intellettuale. Il problema esiste e riguarda molte categorie di professionisti, tra i quali i traduttori. I «creativi,» definizione assurta a mantello per una serie di «nuove professioni,» nell’immaginario di molti fanno cose che «potrebbe fare anche mio cugino che ha un amico tedesco» o «mia figlia che a scuola è bravissima a disegnare.» Contrariamente a quanto si crede, il problema non riguarda solo l’Italia.

La campagna ha il merito di ricordare a tutti che queste attività, benché svolte spesso da casa propria e con minime infrastrutture, sono «lavoro» a tutti gli effetti, che presuppone capacità e dal quale derivano responsabilità. Lo fa in forma simpatica e immediatamente comunicativa, affrontando in modo nuovo un argomento che di solito è affidato a lunghe geremiadi e rivendicazioni solitarie, non sempre comprensibili proprio per coloro che dovrebbero ascoltarle.

La campagna dovrebbe però stimolare anche i «creativi» a riflettere sul loro atteggiamento. Uno dei video della serie «#CoglioneNO» prende l’esempio di un antennista, per dire che a nessuno verrebbe in mente di congedare un tecnico dicendogli: «Per il tuo lavoro non c’è budget,» come accade invece con i «creativi,» la cui opera viene talmente sottovalutata da pretenderla gratis o quasi, oppure scambiandola con «visibilità.» Restiamo in questo esempio.

Quante volte, di fronte al televisore che non funziona, abbiamo chiamato l’antennista e ci siamo sentiti dire: «l’antenna è a posto, il problema è nel televisore. Il mio lavoro l’ho fatto, fa 100.–, grazie e arrivederci.» Paghiamo i 100.– e chiamiamo il tecnico del televisore, che dice: «Il tv funziona, il problema è nell’antenna. Il mio lavoro l’ho fatto, fa 100.–, grazie e arrivederci.» Nessuno di questi due tecnici ha capito che il nostro obiettivo non è sapere se è guasta l’antenna o se è guasto il televisore, ma guardare un certo film in tv. Abbiamo speso 200.–, ma siamo al punto di partenza.

Tutti saremmo disposti a pagare 250.–, forse anche di più, se trovassimo un tecnico che, invece delle risposte sopra citate, ci dicesse: «Non si preoccupi. Costa 300.–, ma entro le otto di questa sera la metto in condizioni di guardare la tv.» Finalmente ci si muove. Non mi importa se il tecnico è laureato al politecnico di Zurigo o ha fatto le scuole per corrispondenza, non voglio nemmeno sapere dove è il guasto: mi risolve il problema e, se in futuro si ripresenterà, richiamerò certamente lui. Ecco perché ci sono professionisti che fanno carriera da leoni, e altri no.

Quanti «creativi pubblicitari» che lamentano scarsa considerazione sanno disegnare loghi e grafiche, ma non sanno guidare il loro cliente a costruire una strategia di comunicazione che generi valore reale? Quanti consulenti di marketing continuano a proporre campagne ignorando l’esistenza dei social network? Il lavoro intellettuale non è «misurabile,» si dice. Cosa distingue una bella grafica da una brutta, un sito Internet ben fatto da uno mal fatto, una bella traduzione da una brutta traduzione? E’ tutto opinabile. No.

Riportiamo l’esempio della tv guasta sul nostro lavoro. L’obiettivo del nostro cliente è comunicare con un partner che parla un’altra lingua, per vendergli un prodotto o risolvere un problema. Il cliente ci chiama, chiede la traduzione di una lettera da spedire a un suo cliente insoddisfatto. «Traducimi questa lettera. – Va bene, per quando la vuoi?…» e così via. Noi traduciamo e il nostro lavoro è fatto, come l’antennista, come il tecnico del televisore. Che il nostro cliente non riesca ancora a vedere il film in tv, ci importa davvero?

Abbiamo mai provato a dire al nostro cliente così: «No, scusa, per risolvere questo problema, tradurre questa lettera non ti serve. Sono un traduttore, conosco la cultura del tuo cliente. Spiegami meglio il caso e lo sento io al telefono nella sua lingua, poi se necessario ti richiamo e gli scriviamo insieme due righe. Vedrai che entro stasera la questione è risolta»? Chi scrive lo ha fatto tante, tantissime volte e garantisce che questo approccio cambia la vita e la parcella. Perché?

Perché rende immediatamente misurabile per il cliente il valore che aggiungiamo ai suoi processi. Non siamo pagati perché laureati, perché più «creativi,» perché anglofoni, biondi o bruni. Ancor meno lo siamo per fare un lavoro che comincia e finisce sul nostro pc. Certamente, anche noi, per riuscire, dobbiamo saper guardare oltre il cancello del nostro orto. Siamo capaci di risolvere a colpo sicuro il problema del nostro cliente con il suo cliente? Abbiamo costruito la credibilità professionale necessaria ad agire in questo ruolo?

I committenti sono stufi di «creativi» che fanno cose mirabolanti, ma che non si mettono mai veramente in gioco, secondo il motto «il mio lavoro finisce qui.» Consulenze di marketing bellissime che non portano clienti, siti Internet splendenti che non fanno vendere un centesimo, traduzioni fatte linguisticamente benissimo, ma che non risolvono il problema che c’è dietro, anzi, magari qualcuno lo aggiungono. I «creativi» così sono tanti, tanti e tanti e normalmente sono quelli che lamentano scarso riconoscimento professionale ed economico. Perché i professionisti che si mettono in gioco (e sono pochi, come i tecnici che si mettono in testa di farti rivedere a ogni costo la tv) invece non li si sente mai lamentarsi?

Certo, poi ci sono le prevenzioni. Tutti abbiamo sperimentato il disagio che si prova, nell’ufficio acquisti di un’azienda, di fronte al responsabile che poco prima parlava con il rappresentante dell’olio combustibile, ed era serissimo e concentrato. Poi arriviamo noi e improvvisamente, mentre ci ascolta, scorre le e-mail, si fa interrompere da dieci telefonate, risponde a due segretarie e firma due bolle. Tanto, siamo «creativi.» La campagna «#CoglioneNO» può aiutare ad abbattere qualche pregiudizio, senza dubbio.

Tutto il resto, però, tocca a noi. Quanti «creativi,» per rimanere nell’esempio, sanno presentare il proprio lavoro in un ufficio acquisti conducendo un colloquio di vendita minimamente strutturato? Quanti sanno negoziare un contratto con efficacia? Quanti arrivano vestiti in jeans e maglietta, smarriti, senza un biglietto da visita e un blocco per gli appunti? «Noi siamo creativi, gente di cultura, siamo superiori a queste formalità.» Peccato che, in questi casi, la forma diventi sostanza. Non ci vorrebbe poi molto a imparare, la difficoltà più grossa, spesso, è vincere i nostri pregiudizi. Oppure, prima di iniziare la professione indipendente, accettare semplicemente la necessità di lavorare almeno qualche anno in azienda, per imparare le tante regole non scritte di quel mondo, quelle che faranno capire al tuo interlocutore, quando ti presenterai come «creativo,» che a te non può dire: «Per il tuo lavoro non c’è budget.»

Il problema centrale resta quello di sostanza: saper guardare oltre il video del nostro computer e metterci in gioco fino in fondo. Altrimenti, le campagne come «#CoglioneNO» e le altre giuste battaglie per ottenere un miglior riconoscimento delle nostre professioni avranno l’amaro sapore di ennesime, antistoriche difese di casta.

| © 2014 >Luca Lovisolo

Fonte: http://www.k-kommunika.ch/lavoro-traduttore/coglioneno-luci-e-ombre.html#.UxWIJuN5O8E

 

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