Apprendere le lingue straniere è solo per pochi eletti?

http://carlolesma.com/wp-content/uploads/2014/01/talento.jpgQuanto conta il talento o la predisposizione personale nel determinare le nostre possibilità di successo nell´apprendere una lingua straniera? Si tende decisamente a sopravvalutare questo fattore, e trascurare quelli realmente importanti.

Non giriamoci intorno: apprendere una nuova lingua è difficile. Personalmente, ora sto studiando giapponese di base e approfondendo il russo. Ed è difficile. Qualcosina di lingue lo conosco, di metodi di apprendimento pure, e insegno alla gente cosa fare per imparare una lingua straniera nel modo migliore possibile. Questo non toglie che, per quanto sia possibile accelerare e facilitare il processo di gran lunga, imparare una nuova lingua resti difficile.

Ci sono varie ragioni per cui è cosí. È difficile dal punto di vista quantitativo: parlare fluentemente vuol dire apprendere migliaia di parole ed espressioni, ovvero studiarsi una grandissima quantità di informazioni. Ed è difficile anche da quello qualitativo: memorizzare elementi di lingue straniere è una delle cose piú complicate in assoluto; questo dipende dal fatto che la nostra memoria è associativa (non si «inseriscono» nuove informazioni, quanto piuttosto si creano nuove connessioni con la nostra conoscenza precedente), e pertanto informazioni del tutto scollegato a quanto già conosciamo sono quanto di piú difficile da ricordare (sia con metodi tradizionali, sia al netto delle tecniche di memoria).

Non è quindi sorprendente che i piú trovino difficoltà, spesso insormontabili, nello studio di una lingua straniera. Non è insolito che si abbia l’impressione di non riuscire a superare mai un certo livello (spesso modesto). Invero, è precisamente quello che dovremmo aspettarci, visto il normale funzionamento del nostro cervello.

Ovviamente, comunque, è possibile imparare una nuova lingua, anche a un altissimo livello. Almeno, qualcuno ci riesce. Io ci sono riuscito in un paio di circostanze diverse: 4 lingue le parlo fluentemente, altre 2 decentemente e in linea coi miei scopi. Ergo, si può fare.

Di norma, però, se dico questo a qualcuno che si lamenta delle difficoltà che ha con lo studio di una lingua, mi risponde qualcosa del tipo: «che ti devo dire, tu magari ci sarai portato, io invece no».

E spesso finisce lí, tra le lamentele e la continuazione della fatica. Oppure la persona si lascia convincere che, se pure il talento personale può avere un ruolo, la cosa piú importante è l’approccio strategico. E inizia a imparare in maniera efficace. Vedremo nell’intervento successivo consigli specifici su come farlo.

Il ruolo del talento

Prima, però, vorrei sottolineare come il talento abbia davvero un ruolo limitato, e molto minore di quello che pensiamo. L’esempio che adopero di solito è proprio la mia storia personale. A chi mi dice «eh, tu parli cosí perché magari ci sei portato!» io rispondo: «sí, probabilmente è vero.»

In effetti, io sono bilingue fin da piccolo, ed è stato mostrato che questo sviluppa maggiormente alcune capacità mentali che sono importanti per l’apprendimento di una nuova lingua (e, tra l’altro, anche per attività sconnesse con le lingue, come la matematica o il pensiero critico). Quindi sí, «ci sono portato». O, per come la vedo mio, ho effettivamente una posizione privilegiata rispetto a molti altri. Ma questo non ha avuto un effetto pratico significativo nella mia vita, e nel mio studio di nuove lingue. Come tutti i miei coetanei, ho studiato inglese a scuola. Per un totale di moltissime ore, regolarmente distribuite nel corso di circa 14 anni. Ho parimenti studiato spagnolo, sempre a scuola, e tedesco (tramite lezioni serali settimanali). In ciascuna, per interesse personale cercavo di approfondire, probabilmente dedicandovi un tempo totale anche superiore alla media. Dunque, se il successo dipende dal talento, e se ammettiamo che io abbia un particolare talento per le lingue, in tutto questo studio avrei dovuto imparare eccezionalmente bene. Eppure, non è stato cosí. Nel 2006, il momento delle prime riflessioni sul ruolo delle strategie nell’apprendimento, mi sono reso conto di una cosa: nonostante quantità mastodontiche di studio, di tedesco non rammentavo piú nulla, di spagnolo poco piú. Il mio inglese era buono? Cosí credevo. Probabilmente, visto che «ci sono portato» e che ci ho dedicato tanto tempo, ero piú abile della maggior parte delle persone che conoscevo. In realtà, il mio trasferimento a Londra fu traumatico. Se le difficoltà nel procurarmi i biglietti per la metro, durante il primo giorno, erano giustificabili dalla stanchezza accumulata nel viaggio, il giorno seguente la mia incapacità di capire bene anche espressioni del tutto banali dei miei coinquilini (quali, non sto scherzando, «come va?»), mi hanno illustrato chiaramente un concetto: hai voglia di «esserci portato», hai voglia di studiare ore su ore. Senza metodo è fatica sprecata.

Nel 2009, il finlandese (lingua molto piú difficile dell’inglese, peraltro), l’ho imparato bene in un’annetto o un annetto e mezzo di pratica. Peraltro, se anche me ne fossero serviti 4 o 5, sarebbe stato abbastanza per sorprendere le persone. «Da quanto vivi qua?» è la comune risposta che, da questa parti, mi fanno quando spiego a uno sconosciuto che li capisco bene, e che non c’è bisogno che mi parlino in inglese o scandendo innaturalmente le parole. Dopo che rispondo, il successivo commento è quasi sempre «Davvero? Conosco quel tal tizio (italiano, o di qualunque altra nazione) che vive qui da 10/15 anni e ancora parla male!»

E allora concludono che io sia naturalmente portato per l’apprendimento delle lingue. Io penso «sarà!», rammentando la mia esperienza londinese. E a 14 anni e migliaia di ore di studio perdute inutilmente. Le possibili soluzioni per giustificare tale differenza di velocità e risultati son due: o il mio talento è esploso all’improvviso per ragioni ignote, o il mio eventuale talento non è il discriminante del successo. Opto decisamente per la seconda.

Il talento allora non esiste? O non conta niente?

Non è necessario fare conclusioni tanto drastiche. Di certo, le variabilità individuali tra piú persone fanno sí che esista necessariamente una qualche forma di «talento». Ma la cosa importante, secondo me, è cercare di definire «cosa» sia. Limitarsi a constatare che in una materia A è piú bravo di B serve a poco: se non al primo per trarne vanto e al secondo per giustificare eventuali fallimenti.

Cercare di capire perché A sia piú bravo di B, invece, può essere molto utile. Ebbene, ecco il mio piccolo contributo al tentativo di identificare il talento. È solo la mia opinione personale e quindi ha un valore modesto, ma ho la forte impressione che ciò che chiamiamo «talento» sia in realtà la naturale applicazione di strategie di apprendimento piú efficaci. Ovvero: Marco è piú bravo a fare calcoli di Matteo? Probabilmente se Marco e Matteo andassero a seguire un corso di calcolo mentale, il primo si renderebbe conto che stava già applicando qualcuno dei suggerimenti forniti. Luca è uno studente piú abile di Alfio? Seguendo un corso di apprendimento migliorato (se serio, almeno), Luca probabilmente ritroverebbe concetti che non gli sono del tutto nuovi, e che aveva intuito naturalmente.

In entrambi i casi, potrebbero anche essere stupiti del fatto che sia presentate come strategie: magari pensavano che fosse semplicemente il «modo naturale» di fare le cose, e che tutti gli altri facessero lo stesso all’interno delle proprie teste.

Questo mi è capitato regolarmente ogni qual volta ho seguito un’istruzione specifica sul come fare meglio certe cose. Se la materia era qualcosa in cui naturalmente mi ero sempre considerato bravo, tendevo a trovare suggerimenti che mi erano sempre apparsi ovvi (ma evidentemente per altri non lo erano). Se invece la materia mi era sempre risultata ostica, non ritrovavo concetti familiari, a riprova del fatto che avevo naturalmente «selezionato» strategie lontane da quelle ottimali.

L’idea sembra confermata anche dai ricercatori, che hanno notato una correlazione tra chi è abile nell’imparare lingue straniere e l’uso di strategie. Studiando l’approccio seguito da questi studenti, cioè, si è notato che chi imparava la lingua in maniera efficace usava naturalmente strategie per l’apprendimento in maniera piú frequente, piú intensa, e ricorreva regolarmente a un numero piú elevato di strategie.

Personalmente, mi sembra piú di un mero modo di specificare la questione, o di «dirla in altre parole». Potrebbe apparirlo: siamo partiti dal dire «Marco è uno studente piú bravo», per finire in «Marco è uno studente che usa piú strategie».

Abbiamo quindi soltanto specifica in cosa Marco è piú bravo, restando comunque alla costatazione poco produttiva che i suoi successi dipendo dal fatto che è uno studente con maggior talento? Non credo.

Infatti, si ha una naturale variabilità nella scelta delle strategie per risolvere un determinato problema nuovo. La selezione può essere determinata da piú fattori, e non credo sia semplicemente un sinonimo di «bravura naturale» o talento. I fattori sono molteplici, tanto esterni quanto interni, e in gran parte accidentali o comunque al di fuori del controllo dell’alunno. Sostanzialmente, quando dobbiamo risolvere un nuovo problema, siamo «costretti» a formare una qualunque strategia, che il nostro cervello sceglie in base a vari fattori al di fuori dal nostro controllo. Senza una guida esterna, il tutto è piú simile a un’estrazione a sorte. Distribuiamo dei bigliettini con varie strategie. E quella che il cervello si becca si becca. Altro che bravura o talento.

In effetti, molto spesso le strategie sono banali o scontate una volta illustrate. Solo che, a suo tempo, ci eravamo ritrovati col biglietto sbagliato, e abbiamo impostato un modus operandiinefficace. Nessuno poi ci ha mai corretto, e cosí ce lo siamo portati avanti per anni. Ecco l’importanza della comprensione delle strategie da parte di chi educa.

Faccio un altro esempio personale che mi ha colpito particolarmente: nella «matematica» a scuola ero sempre stato bravo, e quindi riuscivo a calcolare abbastanza bene. Quando mi sono informato sulle tecniche di calcolo mentale migliorate, mi sono reso infatti conto che facevo naturalmente alcune delle cose suggerite. La parola chiave è alcune. Molto spesso, strategie altrettanto naturali, altrettanto ovvie, altrettanto utili mi erano sempre sfuggite. Semplicemente mi ero trovato con strategie differenti per quel problema specifico. E le ho seguite per tutta la mia vita senza pensarci su, come normalmente facciamo per ogni metodo di apprendimento o risoluzione di problemi.

Ecco l’esempio: si provi a calcolare 868248 * 5. Sembra un calcolo assai complicato da fare a mente, e lungo da fare su carte. Invero, risolverlo col metodo normale è una rottura… Ma per risolvere le moltiplicazioni per 5 c’è un approccio molto piú semplice e molto piú intelligente. Essendo 5 uguale a 10 / 2, basta moltiplicare per 10 e dividere poi per 2 (o viceversa). Dividere per due è facile (basta dimezzare cifra per cifra), e aggiungere poi uno zero (o spostare una virgola). È una banalità totale. Cosí come calcolare 1478 + 397 notando che 397 è quasi 400, e quindi basta sommare questa cifra e togliere poi le differenza (3) dal risultato.

Cose banalissime. Ma non mi erano mai venute in mente. Come? Non ero naturalmente «bravo»? La mia bravura non mi aveva permesso di intuire naturalmente strategie efficaci? Allora perché non avevo mai intuito questa altre, altrettanto semplici se non di piú?

Perché in realtà, la bravura c’entra poco. Non siamo abituati a riflettere coscientemente sulle strategie che usiamo. Il nostro cervello crea strategie in qualche modo. E quello ci teniamo. In alcuni casi la strategia che ci capita di usare è buona (e consente allo studente fortunato di trarne beneficio). Altre volte (nella stragrande maggioranza dei casi) non lo è.

Pertanto, forse dovremmo semplicemente decidersi a rinunciare a ricorrere al «talento» e alla «bravura» per spiegare i successi, e analizzare la situazione da un punto di vista piú costruttivo. Apprendere a imparare si può. Imparare una nuova lingua, parimenti, si può. Perché non è una questione di bravura. Semplicemente, basta riflettere in maniera attiva sulle strategie che adoperiamo, e saper individuare le strategie piú efficaci.

Riassumo questo concetto nella mia definizione di «approccio strategico-critico». La componente «strategico» è stata spiegata in questo intervento. La componente «critico» è altrettanto fondamentale, anche se ancor piú spesso fraintesa o sottovaluta.

Per questo, a breve pubblicherò un intervento che riguarderà proprio questo aspetto. Entro pochi giorni, poi, pubblicherò una lista di dieci consigli specifici all’apprendimento delle lingue straniere, per illustrare alcune delle tecniche e delle strategie piú importanti.

David Tonarini

http://demitogroup.com/blogtonarini/apprendere-le-lingue-straniere-e-solo-per-pochi-eletti/

Pour être informé des derniers articles, inscrivez vous :
Thème Noodle -  Hébergé par Overblog