Scrivere in inglese (soprattutto sul web) - di Chiara Di Loreto
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La prima volta che ho scritto qualcosa in inglese, per essere letta da un certo numero di persone, è stato qualche anno fa, in una classe della London University, dove frequentavo un master. A metà anno ciascuno di noi presentava un capitolo della tesi finale. Avevo un’ora, tutta per me, per persuadere i miei colleghi che il mio testo era il frutto di un lungo e accurato lavoro di ricerca.
Alla fine della presentazione prende la parola una collega americana, una suora paolina buona conoscitrice della nostra lingua per evidenti motivi “professionali”.
“Ah, questi italiani! Leggevo il tuo capitolo e mi sembrava di avere a che fare con il Papa. Avete mai letto un discorso del Papa? Al terzo rigo ancora non c’è un punto, e vi tocca tornare indietro per ricordarvi di che cosa stava parlando…”
Non so se siete mai stati paragonati al Papa. Per me quella è stata la prima volta. Immagino che in altre circostanze ne sarei stata lusingata, ma in quel momento fu quasi un’umiliazione. Eppure la figuraccia mi è servita a imparare la prima, fondamentale regola dello scrivere in inglese:
Periodi brevi!
Il periodo complesso, in inglese, non funziona. Certe costruzioni acrobatiche che noi italiani amiamo tanto sono impossibili da usare. Se scrivete in inglese, e soprattutto se scrivete per il web, evitate le subordinate, le relative e le consecutive. Abituatevi a considerare il periodo come unità di misura, e guardate ogni secondaria come un lusso da permettervi una, massimo due volte a paragrafo. Se il vostro periodo supera un rigo e mezzo rileggetelo, se supera due righe spezzatelo. È molto più semplice di quel che sembra, e alla fine diventa un trucco utile per ovviare agli errori inevitabili cui si va incontro quando ci si impelaga in costruzioni troppo complesse in una lingua che non è la nostra.
Lasciate perdere il vocabolario
Ai tempi della scuola questo era il più insopportabile dei consigli, ma rimane un ottimo consiglio. Non si può scrivere in un’altra lingua, soprattutto una che richieda di essere brevi e concisi, improvvisando una traduzione dall’italiano. Le due lingue hanno tali differenze strutturali che il risultato finirebbe per essere confuso e approssimativo, in una parola: non professionale.
La mia tecnica è cercare di acquisire una certa disinvoltura lessicale sull’argomento, saccheggiando internet. E poi scrivere in inglese, direttamente. Ovvero, se devo scrivere di un parrucchiere, vado a cercarmi tutti i siti disponibili sui parrucchieri, in inglese ovviamente. In questo modo riesco a farmi venire più idee sul testo ma, soprattutto, dopo aver visitato dieci siti diversi, avrò imparato che "asciugare i capelli" si dice blow drying e "doppie punte" split ends.
La semplicità
Quando scrivete per il web vi legge il mondo intero, senza limiti geografici né culturali. Il che significa che potrebbe leggervi lo studente di Kuala Lumpur, il bancario di Città del Messico e l’insegnante di microbiologia ucraina. E nessuno di loro avrà una conoscenza ineccepibile della lingua inglese. Usare un linguaggio semplice e chiaro diventa dunque una necessità.
Può sembrare un paradosso, ma il rischio che spesso si corre scrivendo in un’altra lingua è quello di rifugiarsi in un linguaggio troppo tecnico. Il gergo professionale dà l’illusione di un comodo rifugio dove riparare se si hanno problemi con la lingua di tutti i giorni. Questo va bene se state scrivendo la tesi di un PhD in ingegneria meccanica, non se dovete divulgare il vostro testo attraverso il più immediato e globale dei mezzi di comunicazione. La semplicità, in questo caso, è necessaria perché la gente deve capire quello che dite. Se non capisce, se ne va in un altro sito.
Le furbate
Va bene, conoscete l’inglese benissimo, all’aeroporto vi chiedono se siete madrelingua, in azienda vi fanno fare le presentazioni per i clienti stranieri, a casa avete Sky fisso sulla versione in lingua originale. E siccome la cosa vi lusinga, anche perché, diciamoci la verità, in Italia siete una mosca bianca... vi mettete a fare i furbi. Usando, nei testi che scrivete, una quantità di modi di dire, giochi di parole, slang e via dicendo. Questa è una cosa pericolosissima. Per due motivi principali.
- Il primo motivo è lo studente di Kuala Lumpur. Il quale conosce l’inglese ma forse non tanto da capire lo slang. E dopo aver brancolato nel buio per un paio di righe del vostro testo, deciderà verosimilmente di abbandonarlo, perché sta perdendo tempo. E il tempo, su internet, è denaro.
- Il secondo motivo è che non esiste un unico inglese. I paesi in cui si parla inglese sono tanti, troppi perché la lingua mantenga una integrità nei modi di dire. Il che significa che se avete vissuto tre anni in Texas sarete abituati a usare delle espressioni che probabilmente in Sud Africa non esistono. E se parlate perfettamente l’inglese britannico è probabile che gli utenti yankee siano infastiditi dall’uso di certe forme tipiche dei sudditi di sua maestà, ed è ancora più probabile che non le capiscano affatto.
È più o meno come se mettessimo online un testo in italiano pieno di slang romanesco o milanese. Il resto d’Italia non capirebbe nulla.
Attenzione a non farvi prendere la mano.
Succederà, a un certo punto, che comincerete a prenderci gusto. Il periodo breve e sintetico aiuta ad essere più diretti e disinvolti in quello che si vuol dire. Si acquisisce una maggiore sicurezza perché non c’è molto da giocare con le parole, circonlocuzioni e metafore. E su internet tutto ciò funziona meravigliosamente. Ma attenzione a non farvi prendere la mano, mantenendo lo stesso stile quando tornate a scrivere in italiano! E soprattutto non arrivate a considerare le parole inglesi più efficaci al punto di portarvele dietro in italiano, e abusarne, nonostante esistano nella nostra lingua dei validi equivalenti. Quando mi succede, penso a Beppe Grillo, che raccontava dei pubblicitari milanesi anni ’80, che andavano al brief con il copy per il launch del nuovo trend...
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