Tradurre? - di Franco Buffoni

http://2.bp.blogspot.com/_0fkpRShN_Is/SglJA7IPIjI/AAAAAAAAAsA/Gb5g1YxAbHs/s400/9782754801881FS.gif“Io mi domando”, si chiede Céline nella lettera a M. Hindus del 15 maggio 1947, “in che cosa mi paragonino a Henry Miller, che è tradotto?, mentre invece tutto sta nell’intimità della lingua! per non parlare della resa emotiva dello stile…”.
Evidente, mi pare, già da questa breve citazione, la posizione teorica di Céline sul tradurre. Una posizione che noi italiani potremmo definire crociana, in quanto fa leva sul presupposto della unicità e irriproducibilità dell’opera d’arte per negare la traducibilità della poesia e della prosa “alta”. Tale concezione è l’espressione di un idealismo oggi particolarmente inattuale, contro il quale l’estetica italiana del secondo Novecento (Banfi, Anceschi, Formaggio, Mattioli) si è battuta, direi, vittoriosamente.
Nel 1975 George Steiner parlò della necessità – da parte del traduttore di poesia e prosa en artiste – di rivivere l’atto creativo che aveva informato la scrittura dell’”originale”. E negli ultimi trent’anni la traduttologia – ben conscia della lezione steineriana, ma anche di quelle non meno pregnanti di Gianfranco Folena e di Antoine Berman – ha cercato in ogni modo di suggerire come tradurre in realtà questa necessità di rivivere l’atto creativo. Anzitutto sfatando il luogo comune che tende a configurare la traduzione come un sottoprodotto letterario, invitando invece a considerarla come un Überleben, un afterlife del testo cosiddetto originale. Ma senza cadere nella comoda scappatoia della imitatio. Scappatoia che per autori come Céline (o Joyce o Gadda) porterebbe a risolutive astrazioni, quali: Gadda è l’ideale traduttore di Céline (anzi lo ha già idealmente tradotto), oppure Céline è l’ideale traduttore di Joyce. E così via. Senza dimenticare il corollario del lettore che – come si sa – con tali autori viene a trovarsi in uno stato di traduzione permanente.
“Gli scrittori?” – replica Céline a Louis Pauwels e André Brissaud che nel 1959 lo intervistano per conto della televisione francese – “mi interessano solo quelli che hanno uno stile; se non hanno uno stile, non mi interessano. Ed è raro, uno stile, è raro. Di storie, invece, sono piene le strade: ne vedo dappertutto di storie, pieni i commissariati, pieni i riformatori, piena la nostra vita. Tutti hanno una storia, mille storie”. Un concetto, questo, del possedere o meno uno stile (écrivain o écrivant) su cui Céline ritorna praticamente sempre: “Il trucco consiste nell’imprimere al linguaggio parlato una certa deformazione in maniera tale che una volta scritto, al lettore sembri che gli si parli”. Perché il linguaggio parlato reale, Céline ne è convinto, se riprodotto pari pari non dà affatto un senso di freschezza e spontaneità.
Siamo in sostanza alle soglie di un parodosso pessoaiano: occorre artefare il linguaggio scritto – nato dal parlato – a tal punto da farlo sembrare un parlato fresco e spontaneo. In questa ottica si può ben comprendere perché un grande traduttore di Céline, Gianni Celati, nelle sue note alle versioni di Guignol’s band I e Guignol’s band II, molto correttamente riveli di avere riutilizzato “modi gergali, ora passati di moda, ma usatissimi ai tempi della mia gioventù (ad esempio sotto le armi)”. Il punto è proprio che le locuzioni invecchiano, e presto divengono obsolete fino a rendere necessario il ricorso al glossario, perché il parlato non esiste se non accompagnato da quel gesto, da quella inflessione, da quell’ammiccamento. Lo stile invece resta.
Come riprodurre, dunque, lo stile? E’ la domanda che a questo punto un traduttologo si sente porre. La risposta è che le dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; “traductions des poètes”/”traductions des professeurs”) da Cicerone a Mounin, inevitabilmente portano all’impasse che vede, da una parte, l’intraducibilità di poesia e prosa alta, e dall’altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. (Naturalmente il fatto che sia trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge partendo sia dai presupposti crociani, sia seguendo i dettami della linguistica teorica).
Il nocciolo del problema, a mio avviso, sta proprio nel verbo usato per porre la domanda: riprodurre. Perché la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo (decodifica e ricodifica). Questo può valere al massimo per un testo di tipo tecnico. La moderna traduttologia invita invece a configurare la traduzione letteraria come un processo, che vede muoversi nel tempo e – possibilemente – fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica.
Un testo fondamentale a riguardo è Sprachbewegung (Il movimento del linguaggio) di Friedmar Apel, apparso in Germania nel 1982 e tradotto in italiano per i tipi di Marcos y Marcos nella collana I saggi di Testo a fronte (1997).
Il concetto di “movimento” del linguaggio nasce proprio dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario. L’idea è comunemente accettata per la cosiddetta lingua di arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua d’arrivo continua a subire.
Il testo cosiddetto di partenza, invece, viene solitamente considerato come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in movimento nel tempo sono – semanticamente – le parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via.
La moderna traduttologia in sostanza propone di considerare il testo letterario non come un rigido scoglio immobile nel mare, bensì come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo dell’opera, ma l’opera stessa è in costante movimento.
Si provi a pensare all’opera di Céline come ad un laboratorio mobile, dal quale deve scaturire un testo dotato di valenza estetica autonoma. (La traduzione come genere letterario autonomo è del resto una vecchia idea cinquecentesca di Thomas Sébillet, poi ripresa nel Novecento anche da Jiri Lévy).
In questa ottica, la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro poietico tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto; un incontro tra pari destinato a far cadere i tradizionali steccati tra bella infedele e brutta fedele, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all’atto traduttivo, fornendogli una intrinseca dignità autonoma di testo.
Si potrebbe persino affermare che il movimento nel tempo, in questo processo di traduzione letteraria volto all’incontro poietico, può avere inizio prima ancora della redazione della stesura cosiddetta “definitiva” del cosiddetto “originale”.
Lo dimostra molto bene Lorenzo De Carli in Proust. Dall’avantesto alla traduzione – edito anch’esso nella collana “I saggi di Testo a fronte” – mettendo a confronto le varie traduzioni italiane della Recherche (Raboni, Ginzburg…). Ebbene, dall’analisi testuale appare evidente come i traduttori che hanno potuto (e voluto) accedere anche all’avantesto (cioè a tutti quei documenti da cui il testo “definitivo” prende forma: nel caso di Proust, ovviamente, i Cahiers), avendo compreso in profondità il percorso di crescita, di germinazione, subita da quel particolare passaggio proustiano, siano poi stati in grado di renderlo con maggiore consapevolezza critica ed estetica.
E qui torniamo di nuovo al movimento del linguaggio di un testo. Esso si muove, è vero, verso il futuro all’interno delle incrostazioni della lingua, ma anche verso il passato se si tiene conto degli avantesti. Si pensi agli ottanta mila foglietti da cui provengono le quattrocento pagine del Voyage di Céline, per esempio…
Esprimo quindi l’auspicio che ai futuri traduttori di Céline, di Joyce, di Proust, di Gadda… venga concesso economicamente (come tempo a disposizione) e materialmente di poter operare partendo dagli avantesti dell’opera.
Fonte: http://www.nazioneindiana.com/2011/08/28/tradurre/

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