Come avvenne che il ditale diventasse il buon Dio
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COME AVVENNE CHE IL DITALE DIVENTASSE IL BUON DIO
(da “Le storie del buon Dio” di Rainer Maria Rilke)
(Un poeta racconta una storia alle nuvole, come se fosse anche lui una nuvola)
Una stanza con degli uomini. Io mi trovo discretamente in alto e così essi hanno ai miei occhi l’aspetto dei bambini.[…] Una stanza, dunque, con dei bambini. Due, cinque, sei, sette bambini.
I bambini sembrano parlare animatamente di qualche cosa. […] Già da un pezzo sono così riuniti, perché il maggiore (sento che lo chiamano Gianni), osserva alla fine:
“[…] Qui si tratta anzitutto, d’altra parte, dei genitori, perché ad essi in un certo qual modo incombe il dovere di istruirci su queste cose.[…] Che cosa fanno i nostri genitori? Si aggirano con visi cattivi e corrucciati, mai soddisfatti di nulla, gridano, rimproverano… pure, con tutto questo sono così indifferenti, che se il mondo sprofondasse se ne accorgerebbero appena. Hanno qualche cosa che chiamano ‘ideali’. Forse si tratta di una specie di bimbi molto piccoli che non possono restare mai soli ed esigono molta attenzione: ma allora non avrebbero dovuto avere noi. Dunque, ragazzi, io la penso così: se i genitori ci trascurano, questo, certo, è molto triste. Ma noi comunque saremmo disposti a sopportarlo se ciò non fosse una prova che i grandi in generale istupidiscono, regrediscono, se si può dire. […] I grandi diventeranno sempre più sciocchi…non importa: che cosa possiamo perdere con questo? L’educazione? Essi si tolgono il cappello quando si trovano uno di fronte all’altro, e se appare alla vista una testa calva, ridono. D’altra parte ridono continuamente. Se noi non fossimo tanto saggi da piangere di tanto in tanto, non vi sarebbe nessun equilibrio neppure in questo. […] Pure, accanto a tutto questo superfluo, i grandi possiedono qualche cosa che per noi non può essere indifferente: il buon Dio. Sì, è vero che io non l’ho mai veduto con uno di loro, ma è proprio un tale fatto che mi insospettisce. Mi è venuto in mente, ripensandoci, che essi, nella loro distrazione, nella loro febbrile attività, possano averlo perduto in qualche luogo. Tuttavia, nonostante tutto, egli rappresenta qualcosa di necessario. Molte cose non possono accadere senza di lui, il sole non può levarsi, i bambini venire alla luce, persino il pane finirebbe. Anche se esce dalla bottega del fornaio, è però il buon Dio, che seduto, fa girare i grandi mulini. Si possono trovare facilmente molte ragioni per cui il buon Dio rappresenta qualche cosa di indispensabile. Ma il fatto è che i grandi non si occupano di lui; e allora è a noi piccoli che incombe tale obbligo. Sentite che cosa ho pensato. Noi siamo sette bambini. Ognuno deve portare il buon Dio per un giorno, perché egli possa stare con noi tutta la settimana e sia sempre possibile sapere dove esattamente si trova.”
Vi fu a questo punto un istante di grave imbarazzo. Come attuare tale proposta? Era possibile prendere il buon Dio in mano o cacciarlo in tasca? […] Gianni a un tratto esclamò:
“Qualsiasi cosa può essere il buon Dio. Basta soltanto dirglielo. […] Ma abbiamo bisogno di un piccolo oggetto, che uno possa portare dappertutto: altrimenti è inutile. Vuotate tutte le vostre tasche”.
[…] A lungo si esitò sulla scelta. Infine si trovò che la piccola Resi aveva un ditale, da lei sottratto a sua madre. Brillava quasi fosse d’argento: e grazie appunto alla sua bellezza fu deciso che diventasse il buon Dio. Fu Gianni stesso a metterlo in tasca, perché era lui a iniziare la serie; e tutti gli altri bimbi, per il resto del giorno, gli andarono dietro, orgogliosi di lui. Difficile fu accordarsi su chi avrebbe dovuto averlo il giorno dopo: ma Gianni, previdente, fissò il programma per tutta la settimana, perché non nascessero discussioni. Questa disposizione si mostrò in tutto adeguata allo scopo.
Colui che deteneva il buon Dio poteva essere d’acchito individuato dall’andatura un poco rigida e solenne, dal viso domenicale. I primi tre giorni i bimbi non parlarono d’altro. Ad ogni istante uno chiedeva di vedere il buon Dio – e sebbene la grande dignità non fosse stata causa di nessuna trasformazione del ditale, la qualità di ditale appariva ora in lui come una veste modesta intorno alla sua vera figura. Tutto procedeva in ordine. Mercoledì lo ebbe Paolo, Giovedì la piccola Anna. Venne il sabato. I bambini giocavano a rincorrersi vocianti e ansimanti, quando Gianni d’un tratto gridò: “Chi ha il buon Dio?”
Si fermarono tutti. Ognuno guardò in faccia l’altro. Nessuno ricordava di averlo veduto da due giorni. Gianni fece i suoi calcoli per sapere chi era di turno: toccava alla piccola Maria. E alla piccola Maria fu chiesto subito conto del buon Dio. Che fare? La piccola si frugò nelle tasche. Solo allora le venne in mente di averlo ricevuto il mattino: ma lo aveva perduto, probabilmente durante il gioco.
Quando tutti i bambini mossero verso casa, la piccola rimase sul prato a cercare. L’erba era abbastanza alta. Per due volte passò gente, e le fu chiesto se avesse perduto qualcosa. Entrambe le volte la bambina rispose: “Un ditale”, seguitando a cercare. I passanti l’aiutarono per un poco, quindi, stanchi di rimanere curvi, le consigliarono nel riprendere il loro cammino: “Torna a casa, piuttosto, potrai sempre comprarne un altro”.
Ma Maria continuava a cercare. Il prato, via via che la luce calava, si faceva sempre più estraneo e l’erba cominciò a diventare bagnata, quando sopraggiunse ancora un uomo. Si chinò sulla piccola: “ Che cosa cerchi?”
Maria, vicina al pianto, questa volta rispose con animosa ostinazione: “Il buon Dio.”
Lo straniero sorrise; la prese semplicemente per mano ed essa si lasciò condurre, come se tutto andasse bene. Poi lo straniero mormorò: “Guarda che bel ditale ho trovato oggi…”