Lingue italiane che scompaiono: il Tabarchino
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La lingua che ha viaggiato per mare
In principio era il genovese parlato dai coloni pegliesi spediti alla volta di Tabarka, in Tunisia, durante la metà del XVI secolo, per lavorare alla pesca del corallo per conto di alcuni mercanti genovesi.
I discendenti di quel gruppo di “ corallari” vissero laggiù per circa duecento anni, sempre parlando genovese e via via contaminandolo con termini locali (ad esempio, “couscous” era diventato “cascà”). Anche l’identità culturale di questi pescatori, col tempo, da genovese divenne più “tabarkina”.
Dal XVIII secolo, poi, questa comunità cominciò a essere prima malvista e poi perseguitata dalle autorità locali. I tabarchini furono costretti ad andarsene e ripresero il mare alla volta della Sardegna. Prima si diressero verso l’isola di San Pietro – terra disabitata nell’arcipelago del Sulcis concessa da re Carlo Emanuele III – e lì nel 1738 fondarono Carloforte, ancora oggi l’unico centro abitato dell’isola. Poi, pochi anni dopo, si trasferirono alla volta della prospiciente l’isola di Sant’Antioco, sulla cui punta fu edificata Calasetta, nel 1770.
Carloforte sull’isola di San Pietro e Calasetta sull’isola di Sant’Antioco sono i due centri sardi dove si parla il tabarchino: una “ talea ligure” radicata tra la terra e il mare sardo, da poco meno di trecento anni.
Una storia di contaminazioni
Come ogni altra lingua, nel corso del tempo, il tabarchino ha continuato ad assorbire nuovi lemmi. Molti di questi sono stati importati dai sardi, dai siciliani, dai campani che nel tempo si sono stabiliti in zona. Questi termini, uniti alle primitive contaminazioni arabe, hanno arricchito il genovese originario forgiando la lingua che oggi si sente tra i carruggi di Carloforte e tra le vie bianco latte di Calasetta, lingua che è espressione più evidente di una forte identità culturale, di un attaccamento viscerale al luogo e alla storia di questo popolo.
Lingua viva, ma non riconosciuta
Ancor prima dell’italiano, il tabarchino è sempre stato utilizzato in ogni anfratto della vita privata e sociale: in famiglia, per strada, negli uffici pubblici, in chiesa. In tabarchino si reinterpretano classici come Cenerentola, o Cappuccetto Rosso (che diventa Capucéttu Tabarchin). Dai primi anni del Duemila, poi, esistono un dizionario etimologico, una grammatica, norme fonetiche condivise che ne regolano la parlata e la scrittura. C’è anche uno sportello linguistico che organizza corsi ed eventi per la promozione e la valorizzazione del tabarchino e piccoli laboratori scolastici per avvicinare i bambini alla lingua e contrastare il calo dei parlanti.
Eppure oggi il tabarchino non è ancora riconosciuto dalla legge 482/99 che tutela le minoranze linguistiche, seppur sia una delle poche lingue minori normalizzate e regolamentate con riferimenti condivisi dalle due comunità di parlanti.
Ad oggi si stima ci siano circa quindicimila persone che parlano tabarchino: circa seimila a Carloforte, duemila a Calasetta. Il resto è distribuito qua e là fuori da questi centri.
Attualmente è in corso la richiesta di riconoscimento dell’epopea tabarchina come patrimonio immateriale dell’umanità.
Fonte: https://it.babbel.com/it/magazine/tabarchino
Per le traduzioni dei sottotitoli, ringraziamo Maria Carla Siciliano.