I geni che ci fanno iniziare a parlare

La rapidità con cui i bambini iniziano a parlare dipende anche dal patrimonio genetico (© Roger Richter/Corbis)
La rapidità con cui i bambini iniziano a parlare dipende anche dal patrimonio genetico (© Roger Richter/Corbis)

La rapidità con cui i bambini acquisiscono il linguaggio, tra 10 e 30 mesi di età, è fortemente influenzata dalla genetica, e in particolare dalle varianti di una regione del cromosoma 3. Lo ha scoperto un nuovo studio basato sull’analisi dei campioni genetici di circa 10.000 bambini. Le varianti individuate sono vicine al gene ROBO2, noto per essere correlato, nelle sue rare forme mutate, all’insorgenza di problemi dello sviluppo neurolinguistico come i disturbi dello spettro autistico (red)

Le varianti genetiche associate alla capacità linguistica tra i 10 e i 30 mesi di età sono situate sul cromosoma 3, vicino al gene ROBO2. È quanto è emerso da un nuovo studio, apparso su "Nature Communications" a firma di Beate St. Pourcain dell'Università di Bristol e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale, che ha analizzato i dati genetici di più di 10.000 bambini. Il risultato è coerente con studi precedenti che dimostravano la correlazione tra gravi mutazioni a carico dello stesso gene e l'insorgenza di disturbi dello spettro autistico.
L’acquisizione del linguaggio è una dei processi più spettacolari dell’età dello sviluppo. In media, i bambini iniziano a comprendere le parole tra 6 e 9 mesi, e tra i 10 e i 15 mesi a dire spontaneamente le prime parole. Per qualche tempo, l’apprendimento di nuovi termini lessicali è tipicamente lento, per poi passare a quella che gli psicologi chiamano ”esplosione del linguaggio”: tra i 18 e i 24 mesi i piccoli cominciano a produrre le prime combinazioni di due parole e possono contare su un vocabolario di un centinaio di termini; tra 24 e 36 mesi l’articolazione delle frasi diventa ancora più complessa e articolata, mentre il vocabolario si fa sempre più vasto, fino ad arrivare a 14.000 parole intorno ai sei anni.
Queste tappe, tuttavia, hanno una forte variabilità cronologica, anche nell’ambito dello sviluppo normale: alcuni bambini infatti sono molto più precoci di altri. Come dimostrano gli studi sui gemelli, la capacità linguistica, misurabile contando il numero di parole usate a una data età, ha una componente genetica, per quanto modesta, ma lericerche sulla sua ereditarietà finora non hanno dato grandi risultati.

In quest’ultimo studio, St Pourcain e colleghi hanno raccolto campioni di materiale genetico di 10.000 bambini di origine europea di età compresa tra 15 e 30 mesi, analizzandoli poi con un approccio genome-wide, che permette di trovare le diverse varianti di quasi tutti i geni di una popolazione. Le varianti sono poi state confrontate con i dati sulla capacità linguistica dei 10.000 bambini, sia nella fase in cui si pronunciano solo parole singole, sia nella fase della combinazione di due parole.
Hanno così identificato una specifica regione del genoma, situata sul cromosoma 3, intorno al gene ROBO2, che appare significativamente correlata con la capacità linguistica nelle prime fasi dello sviluppo del linguaggio.
Il gene contiene le istruzioni per sintetizzare la proteina ROBO2, coinvolta in alcuni processi cerebrali fondamentali come il trasporto di sostanze chimiche nelle cellule cerebrali e in particolare nella formazione di nuovi neuroni. La proteina, inoltre, interagisce strettamente con altre della famiglia ROBO, note per essere collegate a problemi di lettura e di memorizzazoine della fonetica.
Il risultato è coerente con quanto emerso da precedenti studi, secondo cui rare mutazioni a carico dello stesso gene sono associate a gravi probolemi del neurosviluppo, come i disturbi dello spettro autistico.
“Questa ricerca consente di comprendere meglio i fattori genetici che possono essere coinvolti nella prima fase dello sviluppo del linguaggio nei bambini: in particolare, nel periodo in cui pronunciano solo singole parole, e rafforza il legame tra le proteine ROBO e un'ampia gamma di competenze linguistiche negli esseri umani”, ha spiegato St. Pourcain.

Fonte: www.lescienze.it

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